Intervista allo chef, due stelle Michelin, Pino Cuttaia del ristorante La Madia di Licata. È cresciuto guardando la Sicilia da lontano. È maturato inseguendo i profumi ed i ricordi della sua infanzia. Oggi è stato incoronato lo chef migliore dell’Isola e confessa: “Amo la Sicilia, amo cucinare”.
LICATA – Pino Cuttaia chef pluripremiato: due stelle Michelin, Tre Gamberi, Tre Forchette, Cinque Baci e chi più ne ha più ne metta. “Ormai è uno arrivato”, penserete. Ma parlando con lui non sembra proprio essersi montato la testa. Tutt’altro: la sua semplicità e la sua umiltà sono disarmanti. “I profumi ed i sapori dei miei piatti sono quelli che sognavo da bambino” spiega, come se realizzare i suoi piatti strabilianti fosse un gioco da ragazzi. Arriviamo a Licata in una caldissima giornata d’inverno. Nel color cobalto del cielo De Gregori avrebbe trovato “la prova lampante dell’esistenza di Dio”. Pino ha negli occhi qualcosa che non riusciamo ad afferrare. Quando inizia a parlare è un fiume in piena, le domande sono solo pretesti per raccontarti cose che ha voglia di condividere: esperienze, episodi di vita quotidiana. Sono le quattro e si sta congedando da alcuni clienti stranieri, tedeschi a giudicare dalle scarpe, che si sono intrattenuti a conversare con lui dopo il pranzo. Ha cominciato a cucinare per hobby, adesso è fra i più apprezzati ristoratori italiani. Ricorda Pino: “è stato un caso: un amico mi ha fatto lavorare un paio di giorni in un ristorante, e da allora non ho più smesso”.
La prima domanda è quella che gli fanno tutti: Perché a Licata? – non esita neanche un istante Questa è la mia terra.
Quanto le costa questa scelta
Molto, sono lontano dagli itinerari turistici tradizionali, Licata non è su tutte le cartine. Non sono pochi, però, i clienti che vengono a Licata solo per venire a mangiare da me, poi scoprono Licata, e ogni volta è una grande soddisfazione. Amo cucinare ma c’è una cosa che amo ancora di più: Licata e la Sicilia. Non riesco ad immaginare di cucinare cose che non mi appartengono, che non fanno parte dei miei ricordi, della mia identità. E allora non credo che ci sia un altro posto al mondo in cui potrei cucinare.
Lei dice che il suo ingrediente segreto è la memoria
Si, in ognuno dei miei piatti c’è una storia che io provo a raccontare. Se non ci fossero anche i ricordi le ricette sarebbero solo il frutto di accostamenti fatti a tavolino, ma sarebbero un inganno ed i clienti se ne accorgerebbero: forse sarebbero dei piatti perfetti ma non sarebbero dei piatti autentici. Dietro ogni piatto della tradizione c’è una storia. Penso alla Caponata, o alle sarde a’ beccafico, al carciofo a’ baccalà, piatti poverissimi nati come espediente per ricreare un’emozione attraverso l’illusione. Se il loro successo dura da secoli è perché sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i ricordi. Se fossero stati solo il frutto di un accostamento ben riuscit, e lo sono, sarebbero durati una stagione: come una moda.
E le stelle?
Stanno a guardare – dice scoppiando a ridere. Durano un attimo: la soddisfazione per un premio, per un riconoscimento è molto importante ma non rende meno faticoso il lavoro. Anzi, ti senti caricato di una responsabilità ulteriore e ti impegni di più, perché raggiungere le stelle è difficile ma tornare nelle ‘stalle’ invece è molto più semplice.
Come si fa a stare tra le stelle e non montarsi la testa?
è molto facile. Nel mio lavoro c’è tanta fatica. Ho fatto tanti sacrifici, tanta gavetta. Sono un artigiano, la mattina – presto n.d.r. – alzo la saracinesca, come chiunque altro. Una volta su un dizionario cercando la parola artigiano ho visto che la definizione iniziava con una parola che per me suonava come una condanna… a vita: lavoratore!
Come è stato crescere al nord?
“Ho imparato molto: la disciplina, la precisione”.
Quanto tempo passa nel suo ristorante?
Non saprei dirglielo: si fa prima a contare le ore in cui non ci sto.
E quante sono?
Poche, sicuramente non abbastanza per stare con i miei figli o per riposarmi.
Come sceglie i suoi ingredienti?
Sono i prodotti che mi piacevano quando ero piccolo, che sognavo da piccolo, perché non me li potevo permettere o perché non era la stagione giusta. E che ricordavo, con grande nostalgia, quando ero in Piemonte.
Per esempio?
La seppia, il carciofo spinello.
Recentemente lei ha scritto su un giornale locale un appello per “salvare il carciofo licatese”
Si, perché un prodotto straordinario come il carciofo con le spine, sta rischiando l’estinzione: come il panda. Per pigrizia e nell’indifferenza generale.
Ed è grave?
È un peccato: il carciofo licatese ha qualcosa di unico, sarei capace di riconoscerlo ad occhi chiusi: ha un profumo unico. Non mi sembra giusto privare i nostri figli di un prodotto così buono.
Si alza di scatto e scappa in cucina, come se avesse dimenticato qualcosa sul fuoco. Torna con un mazzo di carciofi, che tiene in grembo come fossero delle delicatissime rose. Sono bellissimi e profumatissimi, il suocero li coltiva apposta per lui. Ne prende uno e inizia a sfogliarlo, ci invita a sentirne il profumo. Cosa senti? – Adesso è lui a fare le domande ed è passato al tu – Erba, carciofo!
Ma lui insiste: non senti il profumo dell’olio? È vero! Esclamo come folgorato dalla scoperta. Ha ragione Pino: come si fa a non innamorarsi di questo ortaggio ispido eppur dolcissimo?
Torniamo all’intervista, o almeno ci proviamo. Un’ultima domanda.
Sogno nel cassetto?
Avere un ristorante in cui un cliente possa venire da New York, o da qualsiasi altro posto nel mondo, solo per mangiare una seppia ai ferri.
Non ce ne siamo accorti ma sono trascorse due ore. È l’ora di iniziare a preparare la cena, Pino deve tornare in cucina per ricreare la magia delle sue ricette, dove i piatti si materializzano come fiabe. Noi torniamo sulle strade sgarrupate, che ci hanno portato in questo lembo di Sicilia dove abbiamo incontrato un cuoco, un grande affabulatore che ci ha rapiti con i suoi racconti.
1 marzo 2012
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